C'era tanta gente al Teatro Golden per l'iniziativa organizzata dal Fatto Quotidiano, a sostegno dei magistrati che stanno indagando sulla cosiddetta trattativa Stato mafia. Con i dovuti distinguo, mi è sembrato di tornare indietro di venti anni, alla sera in cui ad un'analoga manifestazione c'era il giudice Paolo Borsellino, un mese prima della sua morte; forse perché, con evidenza, non si è ancora chiuso il drammatico capitolo aperto con la strage di Capaci e ancora prima con l'omicidio Lima. Tentando di svelare le ombre che ancora avvolgono quella stagione di sangue vengono fuori fatti già scritti in atti pubblici ma sui quali si tenta di impedire di indagare, perché da più parti la si vuole invece chiudere, attribuendone la responsabilità ai soli capi di cosa nostra da tempo in carcere. Durante la serata al Teatro Golden, il giudice Roberto Scarpinato ha spiegato i due motivi che negli ultimi mesi hanno indotto la mafia ad avanzare minacce, non solo nei confronti dei giudici in prima linea ma anche di molti di altre Procure, che si occupano di diverse inchieste. Il primo è riconducibile ai disagi odierni della componente criminale dell'organizzazione mafiosa, colpita anch'essa dalla crisi. Negli ultimi anni, infatti, si è determinato un calo del 65% degli appalti pubblici, sui quali la mafia ha sempre trovato il modo di mettere le mani e sono diminuiti anche i proventi derivati dai taglieggiamenti alle imprese, con sempre più esigue risorse. La sensibile diminuzione di capitali da rastrellare, determina una perdita di potere che attacca l'autorità della mafia sul territorio e impoverisce l'organizzazione, che incontra sempre maggiori difficoltà a provvedere al suo sostentamento ed a quello dei suoi uomini. In più, i vecchi boss sono accusati dai loro pari di pensare solo a se stessi. Emblematico al riguardo il caso di Matteo Messina Denaro, che sembrerebbe essere a corto di soldi e sempre più avvertito come un peso dai suoi sodali. Il secondo motivo proviene dal passato, da quei capi che sono invecchiati e in carcere ma ancora in vita e che il processo rischia di delegittimare. Sostanzialmente, il sospetto è che i capi di cosa nostra siano stati parte di un gioco orchestrato a livelli più alti, da persone che avrebbero dovuto rappresentare lo Stato e che invece hanno brigato per la difesa di interessi indicibili e insospettabili. Se così non fosse, bisognerebbe spiegare altrimenti, e in modo convincente, perché sia stato revocato l'ordine di uccidere per vendetta facilmente Falcone a Roma, città nella quale si muoveva senza scorta. Inoltre, bisognerebbe spiegare le dichiarazioni di Spatuzza secondo il quale, a partecipare alla preparazione dell'ordigno brillato in via D'Amelio non c'erano solo picciotti mafiosi ma anche persone che lui non conosceva. Sembrerebbe, quindi, che i capi mafia hanno fatto il lavoro sporco per altri, che in cambio del favore, e in un secondo momento dell'abbandono della strategia stragista, si sono fatti carico di continuare a condividere con essi risorse, prebende e garanzie. La crisi, però, sta contribuendo a cambiare le cose. Analogamente a quanto avviene in ambito politico, anche nella mafia si cerca e si richiede l'avvento di un nuovo uomo forte. Riina con le sue aperte minacce, apparentemente inutili per uno nella sua posizione, tutela la sua storia, interpreta il ventre molle della mafia e avanza l'ennesima richiesta alla Stato, fermare i magistrati che indagano sulla trattativa. Questo vuol dire che quei magistrati sono esposti ad un duplice pericolo, quello che proviene dal basso dei ranghi mafiosi, da parte di qualche nuovo boss che potrebbe volere accreditarsi con un nuovo attentato per colmare il vuoto lasciato dai capimafia in carcere e dall'alto, da chi ha ancora l'esigenza di tenere coperto il coacervo malefico di potere e collusioni tra eversione nera, massoneria, alta finanza e mafia degli ultimi venti anni. La fusione di questi due interessi basta a giustificare la rinnovata aggressione armata alla Magistratura.
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