mercoledì 3 dicembre 2014

La caccia all'Oro Nero è un po' come quella ad Ottobre Rosso

Trivelliamo per andare ad estrarre più petrolio, indispensabile per sostenere il sistema industriale europeo della raffinazione in crisi ormai da qualche anno. Coloro i quali si orientano poco nel labirinto delle parole quali mercato, finanza, poteri forti, sindacato ecc, con la vicenda delle trivellazione tocca con mano cosa significano veramente e quale incidenza hanno nelle nostre vite.
Già da qualche anno i petrolieri dell'emisfero occidentale denunciano la crisi del settore della raffinazione e per l'Europa il rischio di dipendere dalle importazioni dei prodotti raffinati, che è giudicato più grave della dipendenza dal petrolio. Il trend del prezzo del greggio al barile è in discesa da qualche anno, da 145 dollari dei tempi d'oro si è passati alla massima oscillazione in negativo di 70, mentre dal 2008 per effetto della crisi e della maggiore efficienza dei propulsori per i mezzi a trazione, i consumi di idrocarburi sono calati sensibilmente. A prima vista, a questa situazione potrebbe porre riparo l'Opec, l'organizzazione dei paesi produttori. Basterebbe che questi tagliassero l'offerta, per mettere in crisi la domanda e far balzare in alto il prezzo del greggio al barile, guadagnando di più. Ma non è così semplice. La produzione di petrolio è aumentata un po' ovunque nel mondo, Stati Uniti, Canada, Russia, e l'Opec non taglia la produzione per non perdere e anzi sostenere il consumo dei mercati asiatici in piena espansione, i quali hanno impianti di raffinazione molto più competitivi di quelli europei e americani e sottoposti ad una legislazione ambientale più blanda della nostra. Per bloccare la concorrenza e colmare lo svantaggio competitivo, le multinazionali del greggio dell'emisfero occidentale puntano a una legislazione ambientale e burocratica meno vincolante e a sostenere i propri impianti di raffinazione con l'aumento della produzione di petrolio estratto dal sottosuolo di casa. Lo hanno fatto negli Stati Uniti, con lo sfruttamento del petrolio di scisto e lo stanno facendo a casa nostra con l'aumento delle trivelle nel Canale di Sicilia. Ha ragione Rosario Crocetta quando dice che Assomineraria si impegna a mantenere gli attuali livelli di occupazione, però non è un regalo alla Sicilia ma un obiettivo strategico delle compagnie petrolifere che da noi hanno i minori costi di royalty, solo il 4% per l'estrazione in mare.
L'Assessore Giosuè Marino, in un'audizione del febbraio 2012 in Commissione Attività Produttive alla Camera, dichiarava che: rispetto all'andamento dei quattro siti siciliani,  la raffineria di Gela, l'impianto Isab-Esso nella zona di Priolo-Melilli-Augusta e la raffineria di Milazzo che fa riferimento a ENI, più il polo petrolchimico di Ragusa con una forte caratterizzazione estrattiva in considerazione dell'ubicazione in sito di molti giacimenti minerari di idrocarburi, non si registrano flessioni dalla produzione se non con riferimento alla raffineria di Gela - e in effetti, l'ultimo allarme chiusura è scattato a luglio scorso.
Attualmente, il 95% dell'energia per il trasporto deriva dal petrolio, mentre nel 2050 solo il 50% della domanda legata al consumo sarà soddisfatto da fonti fossili, il resto sarà appannaggio del biofull. La Sicilia è chiamata ad un sacrificio ambientale necessario per il bene economico del comparto. E non mancano implicazioni geopolitiche. Mantenere alta la produzione e bassi i prezzi colpisce indirettamente la Russia e l'Iran, perché incassano meno dalla vendita della loro produzione petrolifera, già colpita dagli embarghi e sanzioni applicati all'Iran per contenere il suo programma nucleare e alla Russia per le interferenze nella crisi Ucraina.
Curiosamente è una condizione simile alla stessa contro la quale si scontrò a suo tempo Enrico Mattei. Se mai la storia volesse o dovesse insegnarci qualcosa.

Fonti: www.ilpost.it (24 ottobre - 29 Novembre)
           www.camera.it (doc. XVII n. 22)

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